D.lgs. 231/01 e delitto tentato

La Corte di Cassazione ha affrontato – con la sentenza n. 7718 del 20 febbraio 2009 – il tema della responsabilità degli enti ex D.Lgs. 231/01 in relazione al delitto tentato.

di Stefano Antiga*.
***

Con la sentenza n. 7718 del 20 febbraio 2009, la Corte di Cassazione ha affrontato – per la prima volta – il tema della responsabilità degli enti in relazione al delitto tentato.

Occorre premettere che l’art. 26 del d.lgs. 231/01 stabilisce che "le sanzioni pecuniarie e interdittive sono ridotte da un terzo alla metà in relazione alla commissione, nelle forme del tentativo, dei delitti indicati nel presente decreto". Nel caso sottoposto all’esame dei giudici di legittimità, il G.i.p. del Tribunale di Milano aveva disposto il sequestro preventivo ex art. 53 d.lgs. cit., delle somme vantate dalla Fondazione S. Raffaele del Monte Tabor, proprietaria della Casa di Cura Ville Turro, nei confronti della Asl Città di Milano fino a concorrenza di € 2.889.091,18, quali beni costituenti diretta ed immediata conseguenza del delitto di truffa ex art. 640, co. 2, C.p., rappresentanti il profitto del quale è obbligatoria la confisca ai sensi dell’art. 19 d.lgs. 231/01.

I fatti: al responsabile e al direttore sanitario del Centro di medicina del sonno Casa di Cura Ville Turro, veniva addebitato di avere: attestato falsamente nelle cartelle cliniche e nelle schede di dismissione dei pazienti la sussistenza dei requisiti legittimanti il rimborso per prestazioni sanitarie fornite in regime di ricovero le quali, invece, avrebbero potuto essere effettuate in ambulatorio ovvero con degenze di durata inferiore (fatti integranti i reati di falso ex artt. 476 e 479 C.p.); di avere – con artifizi e raggiri consistiti nella presentazione alla Asl competente di richieste di rimborsi per le prestazioni anzidette – indotto in errore l’ente pubblico circa l’appropriatezza e congruenza delle medesime, con nocumento patrimoniale per lo stesso ente e profitto ingiusto per la Fondazione S. Raffaele.

A parere della difesa, la truffa contestata alla predetta Fondazione non poteva però considerarsi – come invece il G.i.p. aveva erroneamente ritenuto – un illecito già pervenuto allo stadio della consumazione, ma semplicemente un delitto tentato. Infatti, secondo la Cassazione, "il delitto di truffa si consuma non al momento in cui il soggetto passivo, per effetto degli artifici o raggiri, assume l’obbligazione di dare un qualche bene economico, ma quando si realizza il conseguimento di questo bene da parte dell’agente con la conseguente perdita dello stesso da parte della persona offesa […]: il che implica che, qualora l’oggetto materiale del reato sia costituito da crediti liquidi ed esigibili, prima della loro effettiva riscossione, con definitiva lesione dell’altrui patrimonio, si verte nella figura della truffa tentata".

A questo punto, la Corte chiarisce che le considerazioni appena riportate non mutano il quadro della responsabilità della Fondazione, poiché, "sebbene gli artt. 24 e 25 Dlgv. 231/01 colleghino la responsabilità amministrativa di un ente ad ipotesi delittuose denominate come consumate […], v’è da considerare che espressamente l’art. 26 cit. Dlgv. opera riferimento alla commissione dei predetti delitti «nelle forme del tentativo»".

Ma – con riguardo alla censura mossa dalla difesa dell’ente che faceva valere la mancanza del profitto confiscabile – la Cassazione dimostra di condividere le argomentazioni difensive, asserendo quanto segue: "l’art. 53 Dlgv. 231/01 prevede il sequestro «delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell’art. 19» e la disposizione richiamata, a sua volta recita: «nei confronti dell’ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato»."

Ribadito che per «profitto» deve intendersi il vantaggio economico direttamente ed effettivamente conseguito con l’illecito […], la Corte, ricollegandosi a quanto esposto trattando della figura della truffa, rileva che "l’imputazione a profitto di semplici crediti, anche se liquidi ed esigibili, non può essere condivisa poiché, in effetti, trattasi di utilità non ancora percepite, ma solo attese: basti considerare che, non solo si verte in ipotesi di somme che se riscosse dovrebbero essere restituite al soggetto danneggiato, ma di somme non ancora sottratte a quest’ultimo".

In conclusione, i giudici di Piazza Cavour statuiscono l’illegittimità del sequestro, in quanto "avente ad oggetto un’entità non coincidente con il «profitto» contemplato dal combinato disposto degli artt. 19, 53 Dlgv. 231/01" e consigliano di puntare sul Codice di rito penale – art. 321 – che consente il sequestro preventivo dei beni “pertinenti al reato”, nell’ipotesi in cui si fosse posta la necessità di impedire ulteriori conseguenze dei fatti contestati.


* Fondatore e direttore della Rivista sul Penale dell'Economia.

Commenti

Post più popolari